A chi dovrà parlare una campagna di sensibilizzazione sugli infortuni al lavoro? Ai diretti interessati, i lavoratori, le imprese? Ovvio. Ma in realtà, come ogni altra tematica di natura sociale, proprio in quanto tale, anche questa riguarda l’intera comunità. O dovrebbe.

Perché quanto più un problema è avvertito da una collettività, tanto più si creano le condizioni perché lo si affronti, ai diversi livelli.

Occorre allora favorire una presa di contatto (razionale ed emotiva) col problema. Perché comunicarne l’esistenza a tutta una collettività, e non solo alla minoranza dei diretti interessati, è un modo per dargli valore.
Lo si propone all’attenzione di tutti, gli si attribuiscono dignità e importanza. Lo si colloca in alto, nella scala delle priorità che una comunità, in maniera più o meno consapevole, sempre si forma.

E qui si incontra il primo ostacolo.
Ogni giorno veniamo raggiunti da una sorta di tragica contabilità: annunci di disastri, guerre, attentati. Lunghi elenchi di vittime. Notizie e numeri che a forza di inseguirsi con quotidiana ineluttabilità, finiscono quasi per perdere significato.

Siamo assuefatti. Abituati al peggio.

D’altra parte -analogamente a quel che accade per i processi di assuefazione biologica – le notizie, per superare la soglia di disattenzione e suscitare una risposta emotiva, devono necessariamente aumentare di intensità, accrescendo la dose di drammaticità. Pena l’indifferenza, l’insensibilità del corpo sociale.

Si aggiunga poi che la visibilità di un evento accresce di molto la sua capacità di provocare reazioni. Così che fatti poco o affatto visibili risultano ancor più indeboliti, incapaci di coinvolgerci.

Nel nostro caso, gli infortuni sul lavoro, occorre allora dare prima di tutto visibilità al problema. Di modo che non sia percepito come qualcosa che riguarda sempre e solo “loro” (gli altri, i cantieri, i lavoratori).

Di qui l’idea di drammatizzare il tema. Di riportare vicino, proprio nel cuore della città, quanto viene di solito tenuto lontano.
Un sabato di settembre, un giorno come tanti altri, all’ora di punta, in Corso Zanardelli: ecco che una quarantina di giovani vestiti da operai e muratori, tutti insieme e nello stesso momento, crollano a terra. Giacciono riversi. Immobili. La postura scomposta. Accanto a loro, gli abituali strumenti da lavoro. Lentamente, si avvicinano altri giovani. Con polvere bianca segnano le sagome dei compagni, non diversamente da quel che fa la polizia quando si imbatte in un omicidio. Intanto una voce registrata annuncia i numeri: 76 morti bianche negli ultimi due anni, solo a Brescia. Più di 50 mila infortuni. E l’invito a non rimanere indifferenti.

Il tutto sotto l’occhio dei passanti, e quel che ancora più conta, quello collettivo delle TV, allertate per l’occasione. Perché gli effetti emotivi della performance vengano amplificati dall’eco mediatica.

La campagna prosegue con pagine stampa, radio e un 30” TV.
Seguirà poi una comunicazione mirata, rivolta a gruppi più a rischio: i lavoratori delle imprese edili, dell’industria, dell’artigianato.

Il linguaggio scelto è diretto, forte. Non “shoccante”, come capita talvolta di sentire commentare. Perché l’obiettivo non è tanto urtare il pubblico. Quanto risvegliare la sensibilità. Far riflettere. Magari anche discutere.