La comunicazione sociale tra colpa e spettacolo 

Di Enrico Bonomini

La maggior parte delle campagne sociali sul tema della sicurezza stradale (a dire il vero più giornalistiche che pubblicitarie, queste ultime scarsamente rilevanti nel mercato italiano quanto a numero e frequenza) non sfuggono a una doppia insidia. Quella di presentare il tema secondo un approccio o moralistico (“correre è una cosa cattiva”) o prescrittivo (“vai piano”, “allaccia la cintura”).

Approcci che appaiono scarsamente efficaci in generale, e in particolare quando si rivolgono a un pubblico giovane. Di per sé fortemente refrattario a recepire linguaggi e messaggi di tale natura.

Sappiamo del resto che ogni giorno, in italia, in media 18 persone muoiono a causa di incidenti stradali. Fatti e numeri ai quali tutti noi sembriamo aver fatto l’abitudine.

Perché?

La morte (la propria) come conseguenza di un incidente stradale è un’ipotesi remota. Anche quando compare sulla soglia della coscienza, lo è in modo nominale. E’ una nozione lontana (e allontanata) dalla sfera emotiva. E lo è tanto più quanto minore è l’età dell’individuo.

Difficile percepire la propria morte, accoglierla e accettarla come evento possibile. Addirittura probabile, se associato a determinate condotte.

Occore allora avvicinarne (non solo razionalmente ma anche e soprattutto su un piano emotivo) il pensiero.

Aggirando quelle modalità difensive messe in atto da ognuno di noi di fronte a contenuti psichici ansiogeni. Si tratta di operazioni interne che hanno l’obiettivo di proteggerci dall’emergenza di materiali dolorosi o penosi, ma al tempo stesso rappresentano un potente ostacolo, il primo da superare.

Vanno in questo senso le operazioni di negazione (“non succederà proprio a me”). O gli atteggiamenti fatalisti e deresponsabilizzanti (“tanto se deve succedere succede” “era destino”).

Il primo ostacolo a un processo di sensibilizzazione sul tema della sicurezza stradale riguarda dunque la resistenza a pensare il proprio coinvolgimento in un incidente come fatto possibile.

Il secondo, speculare al primo, è quello della spettacolarizzazione.

Presentare l’incidente stradale enfatizzandone la componente scenica e drammatica può suscitare effetti paradossalmente antitetici a quelli auspicati. Lo spettacolo della morte, come ben sappiamo, è fonte di fascinazione.

Viene in mente la mitologia dell’eroe che brucia rapidamente la propria vita, magari proprio a bordo della sua automobile. Da james dean in poi, innumerevoli icone cinematografiche declinano questo tema. Che affascina anche perché risponde a bisogni precisi.

La figura di chi sfida il pericolo e la morte, di chi mostra al mondo di non aver paura, serve a esorcizzare l’inconfessabile vissuto di profonda debolezza interna tipico della crisi adolescenziale.

Ci si dovrà dunque muovere tra allontanamento emotivo da una parte e nascosto potere attrattivo dall’altra. Tra presa di distanza e spettacolarizzazione.

La campagna che nasce dalla collaborazione tra chi scrive e l’assessorato ai lavori pubblici della provincia di brescia propone quindi un assunto di segno diverso: avere paura del pericolo e della morte è una cosa sana. E indispensabile. Per non farsi male, per continuare a vivere.

La morte per incidente stradale, da gesto eccezionale o eroico viene derubricata a evento possibile, quasi banale. Evento irreversibile che –molto semplicemente- va a interrompere il flusso vitale. Non più eventualità remota, da tenere emotivamente lontana, non più fatalità di fronte alla quale sembra inutile attivarsi, non fatto mitico e quindi fascinosamente attraente. Ma atto concreto, possibile, quotidiano.

Un evento reale, dal quale ci si può però realisticamente proteggere.

La proposizione sulla quale il lettore (il giovane lettore, cui la campagna principalmente parla) è invitato a confrontarsi è la seguente: morire in un incidente stradale è la cosa più stupida che possa accadere.

Con ciò, si individua un secondo obiettivo: rendere culturalmente e socialmente delegittimata una tipologia di comportamenti che sono tra le principali cause del fenomeno.

Correre, non usare casco e cintura, guidare dopo aver assunto alcool o sostanze, deve venire percepito come atto screditato dal singolo e dal gruppo.

Obiettivo enorme, e tuttavia necessario.

La campagna non indulge a spettacolarizzazioni.

Non intende suggerire (o peggio prescrivere) comportamenti. Non cerca adesioni sul piano razionale (facili da ottenere quanto superflue).

Ciò che questa comunicazione ricerca, e ricrea, è l’avvicinamento emotivo del lettore, un suo coinvolgimento autentico.

I personaggi ritratti sulla pagina del quotidiano, ragazzi normali con facce normali che raccontano storie normali, sono gli stessi che leggono il quotidiano. Le poche righe del racconto mettono in scena passioni, desideri, paure condivise. Comuni verità che un incidente stradale va, semplicemente, ad azzerare.

In seconda battuta, un richiamo stringato, essenziale: non servono troppe parole per ricordare che comportamenti a rischio possono avere effetti letali.

Un linguaggio secco, diretto, concreto. Lontano da echi moralistici o pedagogici